Parlare di emozioni, si sa, non è facile. Fin dai primi anni di vita, i bambini vivono un universo emotivo ricco e complesso: le emozioni dei figli possono essere rabbia, paura, gioia, tristezza, ma non sempre sanno mettere in parole ciò che sentono. Non è mancanza di sensibilità, bensì di linguaggio emotivo.
Saper nominare un’emozione significa innanzitutto riconoscerla dentro di sé, ed è un processo che richiede tempo, sicurezza e modelli adeguati.
Durante l’infanzia, il cervello emotivo (amigdala, sistema limbico) si sviluppa più rapidamente rispetto alla parte razionale (corteccia prefrontale). Questo rende il bambino più reattivo che riflessivo: sente tanto, ma non sa ancora elaborare.
Ecco perché è necessaria la guida di un adulto che sappia tradurre ed accompagnare, aiutando i figli a dare un nome alle sensazioni che provano.
In molte famiglie, parlare di emozioni è ancora un tabù o un segno di debolezza, in particolare con i figli maschi. I messaggi impliciti come “non piangere”, “non arrabbiarti”, “sii forte” insegnano ai bambini che le emozioni non vanno mostrate.
Questo crea un “vocabolario emotivo a metà”: le emozioni “positive” si possono dire e mostrare, le altre vanno nascoste.
L’adolescente e le emozioni
Con l’adolescenza, la complessità emotiva cresce, e la comunicazione con i genitori in molti casi si interrompe.
Gli adolescenti vivono un forte bisogno di autonomia e, allo stesso tempo, di riconoscimento. Parlare dei propri sentimenti può sembrare un rischio: temono il giudizio, la banalizzazione o il controllo (“tanto non mi capiresti”).
Spesso, dietro il silenzio, c’è una richiesta implicita: “Accoglimi senza interrogarmi troppo.”
I genitori possono favorire il dialogo non insistendo, e cercando di creare uno spazio di fiducia e ascolto autentico, in cui il ragazzo si senta libero di parlare quando è pronto.
Molti bambini e adolescenti imparano che “non dire” è più sicuro piuttosto che rischiare di essere fraintesi o criticati. Il silenzio e l’omissione diventano la prima difesa.
Parlare di emozioni. Quale esempio dai genitori?
I figli imparano a gestire le emozioni non da ciò che diciamo, ma da come ci comportiamo.
Se un genitore mostra di saper riconoscere e accogliere le proprie emozioni, il figlio impara che farlo è normale e sicuro.
Viceversa, se il genitore reprime o giudica negativamente le proprie emozioni, il bambino imparerà a fare lo stesso.
Se i figli vedono un adulto arrabbiato che urla, assoceranno la rabbia a una perdita di controllo.
Se invece lo vedono respirare, nominare l’emozione (“sono arrabbiato, ma cerco di calmarmi”), capiranno che le emozioni si possono regolare, senza necessariamente reprimere.
Mostrare fragilità davanti ai figli non è segno di debolezza, ma di autenticità emotiva.
Dire “oggi sono un po’ triste, ma passerà” insegna che le emozioni sono temporanee e gestibili.
La vulnerabilità genitoriale aiuta i figli a sentirsi meno soli nei propri turbamenti.
Purtroppo, la maggior parte dei genitori, per salvaguardare e non turbare i figli, cercano di nascondere le proprie emozioni.
Uno degli strumenti più utilizzati è il minimizzare “non è niente, smettila di piangere”. Un altro strumento è la svalutazione “sei troppo sensibile”. Talvolta i genitori ricorrono all’evitamento “non voglio parlarne adesso”. Per non parlare della menzogna, quando il genitore è triste ma preferisce dire “No, no, tutto bene”.
I figli non hanno bisogno di genitori perfetti, ma di genitori coerenti.
Riconoscere i propri errori (“ho sbagliato a urlare”) e chiedere scusa è una lezione emotiva potentissima: mostra che si può sbagliare, riparare e crescere insieme.
La paura del giudizio
Dietro il silenzio emotivo di molti bambini e ragazzi si nasconde una forma sottile di paura del giudizio.
Temono di non essere capiti, di essere considerati “esagerati”, “deboli” o “sbagliati”.
Questa paura può nascere molto presto, anche da piccoli segnali ricevuti dagli adulti di riferimento.
Quando un bambino esprime un sentimento forte — rabbia, tristezza, paura — e viene deriso, punito o rimproverato, impara a vergognarsi di sentire.
La vergogna è una delle emozioni più paralizzanti: non solo fa tacere, ma porta a nascondere sé stessi.
Un “non piangere, dai” può sembrare innocuo, ma a un bambino comunica: “Quello che provi non va bene.”
Un bambino che si sente accettato nelle sue emozioni sviluppa fiducia nel proprio mondo interno.
Impara che non c’è nulla di sbagliato nel provare paura o tristezza, perché fanno parte della vita.
Al contrario, se le emozioni vengono sempre corrette o negate, cresce l’idea che per essere amati bisogna essere “bravi”, forti o felici. In questo modo nasce il senso di “non essere abbastanza” e la bassa autostima.
Con la crescita, entra in gioco anche il giudizio sociale.
I preadolescenti e gli adolescenti si confrontano con i pari e temono di essere esclusi se mostrano vulnerabilità.
In un mondo che esalta la performance e la felicità, mostrare fragilità è un atto di coraggio.
Per contrastare la paura del giudizio, serve un ambiente dove l’emozione possa esistere senza essere valutata. A volte basta dire: “Capisco che ti senti così, e va bene. Raccontami se vuoi.”
La sicurezza nasce dalla libertà di essere ascoltati, non corretti.
La scuola e l’educazione emotiva
La scuola è il secondo grande luogo — dopo la famiglia — in cui i bambini imparano a riconoscere e condividere le emozioni.
Eppure, per molto tempo, si è data più importanza alle competenze cognitive che a quelle emotive.
Oggi sappiamo che l’intelligenza emotiva è una delle chiavi fondamentali per il successo scolastico, relazionale e personale.
Ogni giorno a scuola si vivono centinaia di micro-situazioni emotive: un compagno che esclude, un errore in classe, un complimento dell’insegnante.
Sono tutte occasioni di educazione affettiva “sul campo”.
Quando un insegnante riconosce e nomina le emozioni dei bambini (“mi sembra che tu sia frustrato, vero?”), trasmette un potente messaggio: le emozioni si possono riconoscere, dire e ascoltare.
Alcune pratiche semplici e quotidiane possono fare una grande differenza:
- Il “meteo delle emozioni” del mattino: ogni bambino condivide come si sente con un colore o un simbolo.
- Le storie illustrate sulle emozioni, da leggere e commentare insieme.
- Le discussioni guidate (“cosa possiamo fare quando ci arrabbiamo?”).
- Il diario delle emozioni, in cui ogni alunno scrive o disegna ciò che ha provato durante la giornata.
Le emozioni “difficili”: rabbia, tristezza, paura
Non tutte le emozioni sono “comode”.
Ci sono quelle che spaventano, che fanno sentire vulnerabili, che gli adulti stessi spesso faticano a gestire.
Rabbia, tristezza e paura sono tra le più difficili da esprimere e da accogliere — ma anche tra le più importanti da riconoscere.
Fin da piccoli, molti bambini imparano che la rabbia è “cattiva”, la tristezza è “da deboli” e la paura è “da codardi”.
Ma reprimere queste emozioni non le fa sparire: le sposta altrove, spesso nel corpo o nel comportamento (ansia, aggressività, chiusura).
Molti adulti, con le migliori intenzioni, cercano subito di risolvere il problema (“non essere triste, andrà meglio”).
Ma ciò che serve davvero, prima di tutto, è sentirsi riconosciuti: “Capisco che ti senti triste, è normale dopo quello che è successo.”
Solo dopo si può passare a proporre una soluzione.
La validazione emotiva è la chiave per costruire fiducia, empatia e sicurezza interiore.
Parlare di emozioni per favorire la comunicazione emotiva in famiglia
Parlare di emozioni in famiglia non è mai un esercizio spontaneo: è un’abitudine che si costruisce nel tempo.
Quando i figli diventano adolescenti, quella che un tempo era una comunicazione fluida e naturale sembra improvvisamente interrompersi.
Molti genitori raccontano di ragazzi chiusi, irritabili, evasivi, che rispondono con un “niente” a ogni domanda su come stanno.
Quando mi capita di dialogare di emozioni con gli adolescenti, spesso alla domanda “come ti senti” rispondono semplicemente “bene” o “male”. Tutto viene condensato e racchiuso in due semplici parole.
Durante l’adolescenza, il cervello vive una vera e propria ristrutturazione.
La parte razionale è ancora in costruzione, mentre quella emotiva è iperattiva.
Per questo gli adolescenti sentono tutto più intensamente, ma spesso non sanno come dirlo.
Non è disinteresse: è confusione emotiva.
Possono sembrare distanti, ma dentro cercano punti fermi, spazi di ascolto che non li giudichino né li “invadano”.
Il dialogo emotivo non nasce quando lo forziamo (“Dai, raccontami cosa c’è che non va”), ma quando lo rendiamo possibile.
Serve un clima di presenza costante e discreta, non interrogatori.
Ecco alcuni esempi semplici ma efficaci:
- Condividere un momento di relax (un film, una cena, una passeggiata) senza parlare subito di “cose serie”.
- Chiedere “Come ti senti?” invece di “Com’è andata oggi?”.
- Raccontare anche le proprie emozioni, per dare il permesso implicito di fare lo stesso: “Oggi ero un po’ stanco, mi ha aiutato camminare un po’ fuori.”
- Mettere in atto l’ascolto attivo. Quando un adolescente si apre, anche solo per poco, il modo in cui rispondiamo fa la differenza. Occorre ascoltare per capire più che parlare per risolvere. A volte l’unica risposta giusta è: “Capisco, deve essere stato difficile.”
Gli adolescenti non si aprono “su richiesta”.
Per questo, il compito dei genitori non è “far parlare” i figli, ma rimanere disponibili, sempre.
Sapere che possono contare su un adulto presente, anche quando non parlano, è già un messaggio potentissimo:
“Posso non dire tutto, ma so che posso farlo se ne avrò bisogno.”
I ragazzi non hanno bisogno di adulti perfetti, ma di adulti disposti ad ascoltare anche il loro silenzio.
Futuri adulti emotivamente consapevoli
Parlare di emozioni con i figli — soprattutto adolescenti — non è solo una questione educativa: è un investimento sul loro futuro emotivo e relazionale.
Un ragazzo che impara a conoscere e gestire le proprie emozioni oggi, sarà un adulto capace di relazioni sane, empatia e resilienza domani.
Nella fase adolescenziale, i ragazzi si chiedono chi sono, cosa vogliono, cosa li definisce.
Le emozioni diventano il “vocabolario” attraverso cui imparano a conoscersi.
Se non sanno leggerle o esprimerle, rischiano di sentirsi stranieri a sé stessi.
Aiutarli a nominare ciò che provano (“sei deluso?”, “sei preoccupato?”, “sei ferito?”) non significa invadere, ma offrire uno specchio dentro al quale possano vedersi con più chiarezza.
Saper gestire le emozioni non serve solo a “stare bene”:
- aiuta a regolare i conflitti,
- a prendere decisioni consapevoli,
- a riconoscere e rispettare i limiti propri e altrui,
- a costruire relazioni autentiche.
È una vera soft skill, oggi riconosciuta come fondamentale nel mondo del lavoro e nelle relazioni sociali.
Viviamo in un’epoca in cui i ragazzi sono bombardati da stimoli emotivi (social, notizie, confronti continui) ma faticano a elaborarli.
Le emozioni vengono vissute in modo intenso ma frammentato: un like può generare euforia, un commento negativo può scatenare ansia o vergogna.
Per questo serve un’educazione emotiva che insegni profondità e continuità, non solo reazione.
Parlare di emozioni diventa un modo per riconnetterli alla realtà e a sé stessi.
Non si tratta di proteggere i ragazzi da tutto, ma di accompagnarli a navigare le proprie tempeste emotive.
Un genitore, un insegnante o un educatore può essere un “allenatore” che insegna ad affrontare le emozioni, non a evitarle.
L’obiettivo finale non è solo farli parlare di emozioni, ma aiutarli a diventare adulti capaci di restare in contatto con sé stessi.
Un adolescente che impara oggi a dire “sono arrabbiato, ma non voglio ferire”, o “sono triste, ma posso chiedere aiuto”, diventerà un adulto che costruisce relazioni basate sulla consapevolezza, invece che sulla paura.
Educare alle emozioni non è proteggere dal dolore, ma insegnare a non averne paura.
Fabio Salomoni















